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GRAND BUDAPEST HOTEL
(THE GRAND BUDAPEST HOTEL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 aprile 2014
 
di Wes Anderson, con Ralph Fiennes, Adrien Brody, Léa Seydoux, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Jeff Goldblum, Jude Law, Mathieu Amalric, Owen Wilson, Tilda Swinton, Tom Wilkinson, Tony Revolori, Willem Dafoe (Stati Uniti, 2014)
 

Dallo svitato e ormai mitico I TENENBAUM del 2001 all'esilarante ma anche tenera storia d'amore fra i surreali boyscout del recente MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE (il suo film più compiuto a tutt'oggi) , Wes Anderson si è costruito un universo tutto suo. Fatto di uno stile inconfondibile, virtuosistico fino ai confini del manierismo, controllato e autoreferenziale fino a sfidare il compiacimento; sempre di un tono dalla rara coerenza, nel nonsenso comico come nel desiderio di stemperarlo finalmente nella fiaba. Con GRAND BUDAPEST HOTEL il regista sembra volere mirare ancora più in alto. S'immerge con il suo tipico giubilo nella fascinosa atmosfera mitteleuropea degli Anni Trenta, ma si reclama anche in modo esplicito alle premonizioni storiche di uno Stefan Zweig, l'eredeper eccellenza di tutta una cultura che sente avvicinarsi la notte cupa dei totalitarismi. Costruisce allora una fuga in avanti, tragicomica, non ancora angosciosa: grazie alle sue tipiche, minuziose miniature, i piani statici e simmetrici che un montaggio sempre più precipitoso intende riferire alle grandi commedie di Ernst Lubitsch, all'arte vertiginosa dell'autore di VOGLIAMO VIVERE! di mutare l'assurdo in verità. O al concatenarsi degli intrighi cari a un'Agatha Christie. E' un fardello non di poco conto per quel piccolo mondo deliziosamente immaginario cui assistiamo all'inizio.

Limmenso albergo color fragola dai fasti decaduti, le montagne magiche dell'Europa centrale all'orizzonte, un concierge tuttofare (in particolare con le signore ospiti), un'eredità seguita da furti e inseguimenti vieppiù ispirati alla grafica dei cartoni animati da parte di una banda di torvi individui nei quali è facile riconoscere la matrice del nazismo incombente. Il tono dell'ambiente , lo sfondo scenografico, la meccanica dell'architettura filmica, perfino il resuscitato formato 4/3 di una parte delle inquadrature sono in effetti i veri protagonisti di GRAND BUDAPEST HOTEL. Al servizio, nei momenti migliori, di una Tilda Swinton imbalsamata che sembra avviarci a funebri atmosfere gore, di una fuga dal carcere che ci riporta alle comiche mute di Buster Keaton; o di una paradossale discesa con gli sci che fonde mirabilmente le riprese dal vero con l'animazione e gli effetti digitali. Mentre la cura maniacale dei dettagli, le pieghe incessanti della progressione drammatica si popolano di un'infinità di ritratti schizzati alla perfezione, spesso per pochi minuti, dalla smisurata galleria d'attori che si sono all'evidenza prestati benevolmente: Fiennes, Brody, Murray, Swinton, Seydoux, Amalric, Norton, Abraham, Keitel, Dafoe, Law, Goldblum. Ma cos'è allora che muta progressivamente la nostra ammirazione in disattenzione, la meraviglia in indifferenza, la comicità in caricatura? Probabilmente una sceneggiatura dilatata e compiacente, tutta in funzione di un piacere per la forma, ma a scapito di personaggi e situazioni. Un effetto di troppo pieno, come quando da ragazzini si sognava di svaligiare la pasticceria.


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